Segno, Cinema e Colore è il titolo della Personale del Maestro Natino Chirico, a cura di Miriam Castelnuovo, dedicata al mondo del Cinema attraverso 60 opere: disegni, dipinti, sculture e un video dal quale traspare la dedizione personale dell’artista su questo tema. La Mostra nasce in collaborazione con l’Associazione Bambino Gesù Onlus che festeggia 10 anni della nascita e alla quale l’artista devolverà parte del suo ricavato. Il Maestro realizzerà alcune opere in collaborazione con i bambini dell’Ospedale.
8 – 13 novembre. Orario: lun-sab 10-19 (Ingresso libero)
Spazio Eventi Tirso – via Tirso, 14
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LA MIA VITA E’ DENTRO UN FILM
Sono diversi gli elementi che aiutano a comprendere quale sia stato nel susseguirsi delle varie vicende della vita di Natino Chirico – e che lo hanno portato ad affermarsi in Italia e all’estero – l’elemento evocatore del particolare legame tra questa fervida personalità e la Storia del Cinema. Un’Arte anch’essa, il cui valore aggiunto risiede nel suo essere espressivamente eclettica, esattamente come l’aspetto più sensibile del carattere di quest’uomo, quando ancora molto giovane riscontra nel mondo del Cinema gli elementi affini alla sua indole e ai quali dedica studi approfonditi e quindi gran parte del suo lavoro, a partire dall’anno 2000 sino ad oggi. Cinema significa prima di tutto movimento così come l’ideale di ogni artista è il raggiungimento dell’arbitraria facoltà dell’esprimersi attraverso il proprio segno libero. Cinema significa conoscenza, approfondimento, cultura, intuito nel saper cogliere nei luoghi e attraverso lo scorrere del tempo le situazioni che ci circondano, che ci influenzano, esasperando i nostri umori: dall’esaltazione alla depressione degli stessi. Cinema infine significa per Natino Chirico saper cogliere i moti e le relazioni umane, semplici e sottili a contrasto con gli imponenti e soffocanti scenari scenografici della realtà cinematografica, così come all’opposto, il voler ritrovare emozioni vissute nella semplicità di certi luoghi, senza il pericolo che ne vengano contaminate la ricchezza e le ancora più fragili profondità di contenuti. Vi è una similitudine, un coesistere attitudinale, tra l’essere regista e l’essere artista: nel porre la propria attenzione in ciò che si cerca di realizzare a 360°, consapevole in entrambi i ruoli di dover sottostare all’incognita nel calcolo delle probabilità, che l’opera riesca compiuta al primo tentativo, o forse no. Natino Chirico si pone di fronte alla sua opera con occhio preciso e attento come di un disegnatore di epoca rinascimentale, pur consapevole che presto quel suo stesso segno preciso e lineare diventerà parte integrante del caos cosmico di cui si è tutti partecipi, scegliendo quindi di alleggerire il proprio tratto, allontanandosi via via dal riferimento al classico di cui è figlio, per appropriarsi di una matrice nuova e inedita pur sempre mantenendo lucidi riferimenti a quella paternità. Il forte senso materico che adesso acquistano le sue opere, in particolare i ritratti di icone protagoniste del cinema italiano, è talmente vivo ed eloquente da ridare loro la parola attraverso l’arte. In questo modo l’opera di Natino Chirico appare completa quanto la narrazione di un film, adesso non più muto, esattamente come le pellicole a cui si ispira per ritrarre uno tra i tanti personaggi noti del cinema a lui cari: Charlie Chaplin. Charlot, questo il nome riconosciuto da tutti, il clochard con la sua piccola bombetta, i baffetti corti e sotto i pantaloni larghi quegli scarponcini dai lunghi lacci con i quali ha perfino immaginato di potersi sfamare. Questo il vagabondo anglosassone che diventa nei ritratti di Natino oggi come allora, un riferimento sulla dura esistenza degli umili, dei vinti, della gente comune che vive di stenti. Una figura emblematica, raccontata da Natino Chirico sorpresa a giocherellare con il suo bastone di bambù dal quale è inseparabile; “né eroe né santo”, una condizione condivisibile dalla maggior parte dell’umanità e a cui l’artista si rivolge. Pertanto la Mostra che qui siamo lusingati di poter presentare nell’ambito del Festival del Cinema di questa edizione del 2013, documenta come da un cammino inizialmente difficile nel distinguere l’elemento scaturente con cui Natino Chirico ha connotato gran parte della sua opera, diventa adesso semplice e lineare, esaminando una ad una, le principali tappe dell’intero corpus presente in questa esposizione: partendo dal disegno da cui nascono, nella capacità di evocare quel senso di movimento di cui si nutrono, sino ad arrivare a rendere immortale la memoria storica di alcuni dei protagonisti più noti del mondo del cinema, attraverso la tecnica del ritratto e con maggior vigore di quanto sia in grado di preservare nel tempo la pellicola cinematografica. Attraverso le opere di Natino Chirico, riviviamo infatti celebri frame girati da registi come Federico Fellini o Roberto Rossellini. Da quest’ultimo e dalla sua pellicola “Roma, città aperta”, Natino Chirico trae ispirazione nel riaffermare un altro pezzo di storia cinematografica, che vede il suo culmine nella realizzazione di una scultura in plexiglass. In quest’opera l’artista ritrae tutto lo sconcerto di Anna Magnani e delle sue ultime grida disperate, mentre rincorre il suo “Francesco”, evocandone la desolazione più profonda, pari nella propria forza espressiva solo a quella del celebre capolavoro “L’urlo” di Edvard Munch (1885). Che vi sia un solo Ciack capace di cogliere il segno nella vita di ciascuno di noi, o viceversa, che il primo sia invece l’inizio di altre numerose ed identiche riprese, è l’esatto ripetersi in cui si imbatte l’artista nell’esaminare le molteplici sfaccettature che un solo soggetto, con una sola espressività, è in grado di comunicare all’esterno. Natino Chirico forse non sa che la fatalità del proprio successo è legato al filo sottile della fortuna, così come al meritato riconoscimento del proprio talento da parte di quel pubblico capace di influenzarne le scelte tematiche, soprattutto nel suo ricercare quel reiterarsi seriale per uno stesso tema. Proprio come il pubblico cinematografico che davanti ad una pellicola vincente, finisce per decretarne la continuità nel tempo, dando consistenza a quelle “Serie” che proprio con questo appellativo, si son poi notoriamente ripetute nel corso della storia del cinema. Tutto questo meritato acclamarsi di umori dall’esterno, è la risposta naturale di fronte all’uomo artista la cui arte ne è elemento imprescindibile, esattamente come se tra i colori della tavolozza Natino Chirico avesse voluto mescolare anche la sua anima. Eppure, così come un amore non potrebbe durare tutta la vita senza il supporto di raziocinio, anche l’arte che nasce dal cuore, deve sostenersi su delle basi ben solide e costruite su idee valide, in modo da poter garantire una celebrità senza tempo. Ecco dunque osservare Natino al lavoro, mentre opera dall’interno, dal suo intimo, subordinando il dato fenomenico a quella condizione interiore che gli è prioritaria rispetto al momento creativo: egli supera intenzionalmente l’illusione del vero e di esso l’aspetto fotografico del reale, nel suo credere ed affermare che la realtà non può essere rappresentata come tale, se non già vissuta di prima persona e analizzata dal proprio pensiero. Natino Chirico prima di creare ripassa a mente, come davanti allo scorrere di un film, una serie di immagini, senza premeditazione: un catalogare ininterrotto di elementi e sentimenti, input dopo input, appassionandosi sempre più ad un tema preciso ma che, rispetto all’opera terminata, finirà con il rivelarsi tutta un’altra storia, inevitabilmente. Egli infatti procede sostituendo agli elementi puramente formali di un’opera, il proprio messaggio scaturitogli dall’Idea, così condizionando a priori ogni esteriore preminenza di contenuti: si può scegliere di vivere più o meno intensamente, ma se si rinuncia a riflettere sulla propria esistenza così come non si riesce a soffermarsi davanti ad un quadro per cercare di trarne un senso, un pericolo esiste: quello di perdersi qualcosa. Un concetto già affrontato un quindicina di anni fa dell’antropologo italiano La Celca nel suo libro “Perdersi” ove egli denuncia la perdita cognitiva di certi punti di riferimento fondamentali per la crescita di un uomo. La Celca partendo dal concetto di centro urbano, sempre più deturpato dal punto di vista architettonico, per opera di “coloro che sono ancora impastoiati in tutte le presunzioni di una pseudoarte e di una pseudoscienza” estende la sua teoria sul piano del sentimento, accusando questi di impedire all’umanità il riaffermarsi di un proprio habitat culturale: “ (…) continuano a pensare alle proprie opere, come ad imponenti imprese pubblicitarie, come spettacoli da offrire ai cittadini come ricordo di sé stessi e della propria genialità di artisti.” Tutt’altro spettacolo, tra arte e cinema, è uno degli ultimi lavori che Natino Chirico dedica a questa mostra “Il dolore di Anna Magnani”: con le silhouette scure dei corpi che cadono rotolandosi a terra, feriti a morte, colti dalla medesima pellicola di “Roma città aperta” ma in un momento successivo alle grida disperate per la sciagura di Francesco. Il dramma della guerra già narrato sui libri di storia prima che da quella del cinema, in questo caso è raccontato da Chirico, ma non al fine di assecondare la propria esigenza di un realismo fine a se stesso e con una narrazione pedissequa dei fatti, ma bensì egli compie un’analisi personale che sia semplicemente comprensibile dal pubblico contemporaneo. Natino Chirico pertanto decide di affrontare con lo spirito di un cronista contemporaneo l’argomento più sentito, sul destino e sulla morte nell’uomo. Le immagini scure si scagliano verosimilmente sul materiale trasparente, il metacrilato, che egli ha scelto per simulare in modo inedito la consistenza di una vera e propria pellicola cinematografica, quando esaminata controluce. Questi corpi dalla resa tridimensionale, escono ad occupare lo spazio circostante, coinvolgendo nelle loro capriole lo spettatore, quasi inducendolo a scansarsi, in una partecipazione sentimentale prima che fisico-spaziale. Le figure vibrano sotto pennellate rapide come tocchi trepidanti, ove il colore nero assume una forma avvolgente, sempre più dilatata e pastosa, ogni qual volta si lasci esaltare dalla luce cangiante, a seconda che sia naturale o artificiale. “Se da ragazzo avessi continuato gli studi di architettura, ignorando la mia attrazione verso l’arte pura, oggi sarei stato un uomo incompleto, sarei venuto fuori come Uno strano.” Ci si avvicina a quest’uomo in modo naturale, ci si sente attratti per empatia, per curiosità e voglia di apprendere, perché da lui trapela un sapere senza ostentazioni. Lo chiamano Maestro perché conosce il disegno prima ancora della materia: utilizza ancora la carta e la matita prima di intraprendere ed escogitare nuove tecniche artistiche, adesso che son lontani gli anni in cui sperimentava quelle definite “tradizionali”. Non tutta l’Arte è in grado di meritarsi quest’appellativo con l’attinenza intrinseca che le spetta; e non sempre un’Arte incomprensibile è tale agli occhi di un pubblico ignorante. Molto più spesso è Essa ad ignorare la profondità dei propri contenuti. Un’opera d’arte è un bene che stupisca, che faccia spalancare la bocca, sbarrare lo sguardo, battere il cuore e soltanto perché esprime l’idea di armonia in senso lato. Per questo l’opera di Natino Chirico si può definire pura e bella, in un esatta sintonia con lo spirito con cui viene generata: fedele a se stessa, resistente alle mode e ai loro tempi di durata, resa immortale dalla riluttanza verso quel senso di effimera celebrità temporanea. Il successo di Natino Chirico risale in quella che ho voluto definire il prolungarsi dell’umano nella materia: un passaggio naturale dall’artista alle proprie modalità espressive. Non vi è tecnica che egli non conosca, che non sappia applicare personalmente, che non germini da quelle stesse mani. Nulla è lasciato al caso: anche il segno pastoso che si definisce astratto, diventa poi naturale poterlo confrontare con il precedente disegno preparatorio. Natino Chirico ogni giorno della sua vita l’ha dedicato a questo lavoro, uscendo di casa come un tempo l’artigiano si recava in bottega, oggi nel suo studio a disegnare, a incidere, a stampare, a dipingere, a plasmare, limare, levigare, assemblare, incollare. Mai un giorno uguale all’altro, fortunatamente, in questo continuo, quotidiano affermarsi di unica identità tra il Maestro e la sua Opera, nell’attuarsi di un’esemplare messa in scena senza soluzione di continuità, ove il regista è anche l’interprete e viceversa, in modo complementare e insostituibile a compimento del miracolo espressivo: il trovarsi davanti a questi due “elementi” tangibili e vivi entrambi. Così nell’uomo, il Maestro, così nella sua creatura, l’Opera, scorre la stessa linfa vitale, risultato di un medesimo migrare dal cervello diretto al cuore e alle mani, fino al raggiungimento della forma il cui spirito torna ad appagare gli impulsi creativi della materia grigia, che complice, è già pronta a ripartire per una nuova creazione. Miriam Castelnuovo
La mia vita dentro un film – testo critico a cura di Miriam Castelnuovo
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Rassegna Stampa
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