Davide Orlandi Dormino è appena tornato dal suo soggiorno ad Haiti dove ha lavorato producendo in loco, per lasciare un’installazione in memoria del dramma che ha colpito la popolazione ormai già un anno fa nel gennaio 2010.
Trascorriamo un paio di ore insieme davanti al suo pc con le numerose foto di opere che con il suo nome, sono collocate in giro per il mondo. E’ la voglia di sapere che lo porta lontano, la passione per il suo lavoro che lo rende entusiasta e gli illumina lo sguardo: Davide ha uno spiccato senso estetico che lo spinge alla ricerca di vasti panorami da cui fruirne la bellezza. Talvolta è il suo lavoro, che interagendo su di essi, li rende apprezzabili in modo inedito ma prima di tutto per se stesso più che per gli altri. Su questi diffonde la sua voglia di creare, unita alle nuove intuizioni con cui si rafforza durante il percorso; crea con esse connessioni stimolanti che sono la prova appagante di questo suo bisogno “di oltre”. Mi scorgo di fronte ad un rivoluzionario sincero, che assomiglia ad un giacobino forse per il cappello di lana con cui mi accoglie nella Libera Accademia delle Belli Arti romana dove insegna scultura.
Le sue parole me lo confermano poco più tardi, nel suo volersi definire a tutti costi “spirito libero” da mode indotte, committenze obbligate, tematiche esageratamente sfruttate e solo per arrivare prima di altri a raggiungere la cima di una vetta, senza considerare il rischio più grande del proprio isolamento sensibile prima che sociale. Egli lascia piuttosto che sia il proprio istinto a trasportarlo : esprime con esso il suo attaccamento alla poetica dell’invisibile, dove oltre ai materiali distinti secondo le proprie origini, come il marmo di Carrara, la pietra di Borgogna o il granito del Portogallo; alle tecniche con cui sperimenta e che applica diversamente sull’ambiente, ora utilizzando le resine, ora il gesso, il legno e il cemento armato, immerso come si sente in questo ruolo privilegiato come fosse un alchimista per cui ad esempio il ferro è materia malleabile quando si sviluppa in un tortuoso filo, ma diversamente plasmabile nella realizzazione massiccia di chiodi appuntiti. Dormino sente di poter elaborare la materia in genere, fino ad esaltarne le qualità quale verbo di una verità superiore. Il suo approccio, sia che consista in un foglio di carta ripetutamente stropicciato, sia in un metallo tagliato in modo apparentemente sottile così da farlo librare nell’aria come “Parole buttate al vento”, consiste nella percezione arcaica e arcana allo stesso tempo e per la quale non rivela timore ma un estremo rispetto. Ancor più facile immaginare questo artista alle prese con la materia come fosse un vero e proprio guscio: ma non nell’accezione michelangiolesca per il quale basterebbe liberarla scolpendone via il superfluo. Egli indaga su di essa alla ricerca del suo senso primitivo di “mater” per aprirla alla luce e al colore del mondo naturale e prepararla alle sue infinite metamorfosi.
Dormino si conferma sensitivo, capace di toccare la materia con la stessa delicatezza di una carezza, così da scioglierla e suscitarne le inesauribili potenzialità: riesce ad instaurare con essa un costante colloquio operativo a cui ricondurre l’uso del proprio pensiero, del tempo e del sogno.
Tutto questo si avvicenda già prima su degli studi, spesso schizzi su carta, acquisendo il valore di esercitazioni, valutazioni sulla percorribilità di nuove soluzioni. Sui disegni preparatori Davide è in grado di delineare i volumi dosandoli con il tratto della sua matita, creando contrasti dovuti alle profondità o a certe contrapposizioni che si succedono tra le luci e le ombre. Il foglio è come se offrisse già in nuce al progetto, la sua disponibilità ad accogliere la materia in tutta la sua concentrazione di energia, per cui si espande, quale consapevole prototipo di successive articolazioni tridimensionali. Pensiamo alle pesanti pagine in marmo che Dormino trasforma come morbide al tatto: esse ricalcano piccoli prototipi su carta dove egli ha sperimentato, piega dopo piega e sulla medesima superficie, ciò che poi ha reso nel marmo in modo concettuale. La trama dei suoi disegni è come fosse una tessitura che filtra e a sua volta trattiene, ciò in cui risiede il nucleo della materia stessa, su cui poi andrà ad operare. Non lo abbandona mai una certa ironia espressiva, con cui Davide si confronta sdrammatizzando certi temi per dar seguito a creazioni tuttavia incontaminate. Egli lavora nel raggiungimento tridimensionale della scultura, che collocata maggiormente in ambienti esterni, gode di una luce vera e naturale: questa, nel suo mutare con il trascorrere del tempo e delle stagioni, esalta il senso, l’espressività, e la costruzione dell’opera che di fatto è riconducibile all’andamento emozionale di Dormino, artista artigiano.
Pensiamo ai suoi cuscini e al tema onirico-ironico che ha affrontato nelle sue diverse installazioni: l’estrema naturalezza con cui Davide li scolpisce inviterebbe ad adagiarcisi sopra. Ma non vi è possibilità: il monito sottile con cui l’artista invita a dormire di meno e a pensare di più, è facilmente accolto dalla visione di scomodi ed enormi chiodi, con i quali si tradisce e sconvolge totalmente l’idea primigenia di morbidezza, per cui piuttosto si scorgerebbero trafitte le carni abbandonate, intente a godere di un immeritato riposo. Lo stato di insonnia è per il nostro artista un momento quasi magico: qualcosa che induce a pensare già al domani in uno stato di lucida veglia. Un monito cordiale con cui Dormino invita le popolazioni del mondo ad agire di più sfruttando il tempo a loro disposizione e dunque ad ottimizzare, pur penalizzando il proprio sonno. Nulla di violento, nulla di forzato, così come l’artista ci appare saggio e autoironico allo stesso tempo, così egli sa di poter dare alla sua opera un valore completamente simbolico. Come l’ultimo foglio scolpito, Breath (Soffio), che nell’atto quasi incompiuto di scivolare, si adagia a terra e resta piuttosto sospeso a metà, proprio come restò bloccato nelle gole, il respiro dei parenti delle 250 vittime del terremoto haitiano. Questo foglio, oggi installato nel nuovo Quartier Generale Onu ad Haiti, costruito sulle macerie di quello preesistente, potrà un giorno riprendere quota e librarsi in un cielo libero da nuvole, che troppo a lungo hanno oscurato la luce limpida di un sole vivo. L’artista cerca di fermare il momento prima in cui la terra inizia a tremare: “quel soffio fa scivolare le pagine facendo cadere la prima a terra”. Ad esso inoltre corrisponde ad una via di uscita, ad un amaro respiro di sollievo, per tutte quelle vite che pur miracolosamente sopravvissute al dramma hanno sfiorato la morte, per tornare a rivivere con una diversa consapevolezza. Dormino incolla una ad una le lettere di 102 nomi dei caduti dell’Onu, senza un ordine alfabetico così come non esiste ordine gerarchico difronte alla morte. Il foglio in una tridimensionalità appena celata, si dilata nell’ambiente, regolandone con precisa armonia progettuale tutto lo spazio circostante. In questo modo, l’opera in se acquista un valore storico superando quello meramente quantitativo della scultura come oggetto: l’artista lavora sulla materia come dolente e inesausta energia germinale attraverso cui poter attuare quel miracolo perpetuo che si alterna tra la vita e la morte, tra l’amore e il dolore, tra la gioia e il pianto. Egli sa come si raccontare sentimenti di rinascita e di crescita, di sgomento e trepidazione, di slancio e di dubbio, suscitando attraverso di essa molte domande.
Mille sono gli enormi fogli bianchi di resina, sparsi in tutte le direzioni possibili, ad occupare ampi spazi architettonici, come le corti di un castello, in modo da unire l’impatto visivo a quello più direttamente fisico. Le persone occupano l’ambiente, che per lo scambio di luci ed ombre appare loro inconsistente, variabile, addirittura virtuale. Queste pagine, bianche, vuote e rigorose sono pronte per essere animate da parole scritte, proprio come corpi inerti disposti a rinascere. Parole che tornino a trasmettere la forza che avevano perso, che ci aiutino a liberarci per sempre dalle costrizioni e che soprattutto siano inconfutabili come certe verità assolute. Queste pagine, candidamente concettuali, assurgono a perfetta sintesi tra la tensione progettuale di quest’artista architetto e la memoria dello spazio stesso da lui disegnato culminante nella suggestiva triade spazio-opera- tempo assoluto. Dormino non pone attenzione alla beltà come puro concetto estetico con cui rappresentare un armonia imperturbabile, ma sviluppa un’idea di bellezza come fluire continuo di energia nella e dalla materia, posta in evidenza la maggior parte delle volte, dalla luce naturale che su di essa si irrompe, indugia, scivola, dilaga, per poi scomparire, dirompere e di tutto come da tutto, permearsi. La sua opera, col suo battito così scandito, con il suo ritmo così pulsato, è tesa ad esprimere la consistenza e la verità essenziale del cosmo, così come Dormino le percepisce e le accoglie, per poi raccontarle in un modo riconoscibile da ogni essere umano: pagine sgualcite e volutamente mute; libri pesanti come le frasi ridondanti di questa società contemporanea priva di (buon)senso; cuscini appuntiti come presenze indesiderate di un mondo non più emblematicamente onirico. Sono tutte installazioni collocate per lo più in ambienti esterni, all’aperto, proprio in risposta a quell’esigenza per cui l’artista ha ricercato più in profondità e nella natura in particolare, la strada per cui carpire lo spirito di quegli stessi spazi: pieno e vuoto, pesante e leggero, minerale e organico, rigido e morbido, levigato e ruvido.
Davide Orlandi Dormino opera una sintesi plastica modulando la propria forza fisica ed intellettualmente avida in un approccio con la materia libero, per riuscire a rinominare lo spazio ogni volta, come fosse la sua prima volta.
Miriam Castelnuovo