Il mio amore per il segno e per la parola
“Ho capito dopo che le bacchette sarebbero diventate pennelli” con queste parole Carlo Cecchi parlando del suo amore per la batteria, si racconta attraverso melodiche e armoniose parole come tra tra le note musicali di uno spartito. Egli non risente affatto di quei vuoti pneumatici che spesso caratterizzarono le tormentose esistenze di una certa artisticità contemporanea, con il risultato di renderla banale. Paradossalmente di “pneumatici” nei lavori di Carlo ne vedremo di molti e di tutte le guise, per lo più affiancati ad animali e altri oggetti di uso quotidiano: dalle tazzine da caffè, ai coni gelati vicino a ippopotami, canguri e spesso a giraffe. Anche la scena è uno dei luoghi a cui Carlo Cecchi ricorre nella e per la sua produzione artistica: sia quella facilmente riconducibile ad un vero e proprio teatro, sia più generalmente ad uno spazio aperto alla visione, fruizione e percezione di un pubblico libero, come quello di una piazza di una città. Altro topos ricorrente nella poetica di questo artista è infatti la città, teatro di avvenimenti e del loro succedersi, simbolico asilo alla voglia instancabile di un creare senza limiti strutturali
Cecchi incanta per la trasversalità metodologica per cui affianca parole ai suoi disegni; per l’eclettica competenza per cui come artista, è in grado di rivelare tutte le volte tessiture interpretative sempre differenti. Dipinge e disegna forme semplici, delinea contorni a carboncino di figure che occupano spazi infiniti e oltremodo indefinibili, come lo sono le atmosfere, che seppur totalmente monocrome, esprimono un armonia positiva come se fossero coloratissime. Non vi è mai superficialità in ciò che Cecchi racconta, ma piuttosto proprio come in certi rebus, egli spiega nell’assemblare figure apparentemente stridenti tra loro, capitoli di storia vera, ma che spesso restano irrisolti da chi li osserva. Crea delle invenzioni la cui ariosità risulta perfettamente consona alla forme che egli ha intuito e abbozzato, già al suo primo impatto con una realtà che seppur sentita prima che raffigurata, è tutta ancora da risolvere. Ne risulta un’opera in cui lo spazio, anche se apparentemente disabitato, se non fosse per la presenza delicata di alcuni soggetti, risulta immediatamente espressivo, in quanto le figure che lo abitano sono più vive e concrete che mai: anche quando si tratta di accostamenti fantastici e surreali, in cui animali da cortile come oche e conigli si accostano a mucche e pinguini domestici. Citiamo uno per tutti “Il diametro del fiume” una grande scultura installata in una rotatoria a Jesi nel 2004, il cui nome trae spunto dal vicino fiume Esino in cui è collocata. In questo caso si assiste alla composizione di quattro elementi significativi attraverso i quali Carlo Cecchi ha saputo sintetizzare il perimetro della città: la pinza che a Jesi viene detta “cagna” a guardia di chi entra. L’artista qui ne sottolinea la bivalenza semantica da lui voluta nell’evocare attraverso di essa la cultura operaia del luogo. Poi vi è il falco altra figura emblematica che ricorda Federico II nato a Jesi, autore del trattato De arte venandi cum avibus e per cui spesso la storia lo ritrae nella caccia al falcone; l’ippopotamo, animale simpatico all’artista e qui ritratto per la sua inconsueta armonia con l’habitat fluviale marchigiano e ultima una foglia, ovvero la sapienza contadina che si è sempre saputa integrare con l’industria. Molti sono i messaggi con cui Carlo Cecchi si rivolge libero alla sua società, oltre alle citazioni storiche che non possono mancare: in sintesi un racconto in cui si combinano in modo perfetto saggezza e poesia, pittura e parole. Tutti i suoi lavori rifuggono la contaminazione, la corruzione e l’urto esagerato con la realtà contingente: da qui l’umiltà intellettuale di un uomo artista che ha molto da dire ma che per scelta evita di strumentalizzare la sua arte per non renderla il capro espiatorio dei mali della società. I suoi lavori sono perciò artistici nel senso più appropriato: esprimono qualcosa di diverso da quel che ci circonda, pur mantenendo un filo sottile per cui confrontarsi con la attualità, ma che non viene compreso da tutti. L’arte è frutto di un espressione personale libera e naturale, semplice e pulita, attraverso cui poter comunicare come dall’alto di una scena e muniti di megafono. L’universo fantastico con cui Cecchi compone le sue tele va oltre le apparenze: egli vibra lavorando il nero del suo carboncino, lascia che questo si accosti talvolta a qualche pigmento che per quanto è diluito, si esprime sottovoce e sempre subordinato al tratto segnico. La sua produzione è riducibile a un numero ristretto di grandi motivi- metafora: un corpus di più cicli pittorici tra di loro indipendenti e ciascuno alimentato da un propria linfa naturale. Tanti i soggetti e i temi trattati e tutti riconducibili ad un solo linguaggio poetico: si assiste al contendersi da protagonisti ora del mito ora della storia. Le immagini nel loro reiterare talvolta sono precise, nette e definite dal tratto energico come i capitoli in un libro di Storia ; altre invece compaiono sulla tela o sul cartoncino come dal nulla, per illustrare una visione del mondo raccontata in frammenti, attraverso una segnica sognante e nebulosa, come a voler destabilizzare le poche certezze a confronto con nuove presenze fantastiche. Cecchi ritrae i suoi temi trasportato da un flusso energetico che procede nel tempo e dunque, assecondando se stesso nell’incessante continuità della sua produzione, senza “soluzione di continuità”. Esattamente quel termine che nella storiografia viene descritto come necessario per oggettivare le azioni e i fatti che nella storia si susseguono: quello di Carlo è un tempo infinito e per questo è inutile scandirlo, anzi nei suoi lavori resta sempre qualche spazio vuoto, pronto ad accogliere la libera immaginazione intelligente dei suoi fruitori.
Questo caratterizzarsi del segno per cui egli riproduce lo spazio come fosse appena schizzato, si traduce nella stessa efficacia di brevi parole dette, il cui significato colpisce più in profondità di un intero discorso. Carlo Cecchi comunica nel tratto ciò che non può e non vuole forzare dentro impossibili confini, così come per scelta, piuttosto che enfatizzare quelle idee frutto di una personale e spiccata sensibilità culturale, lascia che esse si dissolvano nelle tele, per non confonderle con il tentativo di presunzione descrittiva. Il luogo ideale di questa voluta perdita di sé e del suo raccontarsi ogni volta in un modo diverso, Cecchi lo va ricercando ricorrendo alla città e in tutto ciò che la anima: sono originali i suoi oggetti che disegna dietro sembianze umane, per cui sembrano avere un’anima proprio come gli uomini e gli animali. Egli racconta un mondo che però non è solo suo, è un mondo generico e accessibile e in questa semplicità risiede gran parte della sua forza espressiva. Basta lasciarvisi immergere: esso respira come i motori accesi delle lambrette o dei vecchi aeroplani che sorvolano cieli infiniti. E se proprio le nuvole che li abitano, sono un pretesto per ascoltare suo padre che racconta la guerra di Grecia, si capisce presto come questo non sia un universo fantastico, ma un’entità capace di stridere e di sentirsi consumare per l’uso proprio come accade agli oggetti-metafora che insieme all’umanità, rischiano di ridursi allo spasimo. Ecco come Cecchi elevando il suo punto di osservazione e con una lente di ingrandimento in mano al posto delle vecchie bacchette, ritrae prima una semplice lametta da barba, per poi storicizzarla nell’arma simbolo del Terrore della Rivoluzione Francese; oppure disegna la pinza, normalmente strumento operaio e adesso anche simbolo severo del monito a non oltrepassare i limiti. Come si è detto le sue città respirano insieme agli oggetti che le popolano: immaginiamo ombrelli nell’atto onomatopeico di aprirsi sotto la pioggia che goccia, o degli specchi intelligenti mentre riflettono in senso lato, o le macchinette da caffè mentre borbottano per la monotonia del loro sfruttamento mattutino, ogni giorno uguale. Questo stesso universo fantastico, ne sottende volutamente un altro, la cui distanza dal quotidiano ha lo stesso peso della memoria storica: non di quella recente, appuntata tra i giorni della settimana, ma di un passato più lontano che non bisogna dimenticare. Ecco come Cecchi decide di far rivivere i ricordi come ne sarebbe capace l’essenza di un profumo o l’intensità di un colore: il celeste ad esempio, che in questo caso si rivela al pubblico nuovamente come storia, nel racconto che l’artista svolge narrando le attese e le speranze di Celeste Erard, moglie del noto genio musicale Cesare Spontini.
Cecchi traspone nei lavori un agglomerato di forme e di soggetti diversi tra loro e mai uguali a se stessi, secondo l’ordine suggerito dai suoi pensieri che ne diventano parte necessaria e complementare: ne consegue come ciascuno tra gli spettatori riscopra nei lavori di questo artista l’angolo privato e più intimo della propria anima, come il segno particolare per cui ritrovarsi, un segnale di riconoscimento e di appartenenza. Quel che cattura di Carlo Cecchi, è l’errare senza meta che fa compiere ai suoi soggetti, dentro spazi illimitati a conferma di un inconfutabile senso di libertà, nelle azioni e nelle parole. Ancora una volta, la scena è il luogo prescelto ove il pubblico si confronta: le voci di questi si accavallano alle parole scritte da Carlo Cecchi accanto alle sue figure, il cui peso semantico ha reso nuovamente stabili, nonostante il caos della città.
Miriam Castelnuovo