CROSSROADS di Alessandro Sansoni
Le opere che Alessandro Sansoni, emergente artista romano, ha scelto di esporre in questa sede a nove anni dalla prima Personale, sono il risultato di un atto critico che sottintende diverse implicazioni di ordine culturale ancorchè sentimentale ed emotivo. Il nome “Crossroads” che caratterizza l’intenzione di questa esposizione, rivela al pubblico naturalmente, il senso assoluto che sottende ad ogni singola opera, generata attraverso l’elaborazione di percorsi interiori. Il tracciato segnato dalle tele di Sansoni passa attraverso alcuni episodi narrativi fondamentali, una sorta di fil rouge emozionale e autobiografico che man mano va srotolandosi e dal quale emerge protagonista la voglia di ottimismo e di speranza. Vi è la certezza in Sansoni che per ciascun essere umano possa esistere una propria via di uscita: l’Exit rossa imperante che troneggia su una delle tele, evidenziata dall’interno di una stazione della Metro, dove i convogli viaggiano rumorosamente attraverso le cavità sotterranee, avvolti nell’oscurità totale, segnano una traiettoria che l’artista vuole sottolineare come forma di passaggio solamente temporaneo, di tutta un’esistenza.
Punto di partenza di Sansoni è la rivisitazione equilibrata della sua infanzia, ricostruita attraverso frame fotografici che lo ritraggono da bambino e che Alessandro stesso analizza come altri da se, servendosi di quel distacco emotivo apparentemente segnato dal tempo che passa. Su questo studio iniziale, l’artista si sofferma fino al raggiungimento intuitivo di certi segnali più significativi, che già da allora fungevano da anticipazioni spontanee di un’emotività oggi ancor più pulsante. L’ottimismo stampato su quelle tele, sono testimonianza di un iniziale linearità, di un retto parallelismo di sentimenti esistenziali finalmente metabolizzati e lasciati scorrere fluidi, proprio come l’uso di certi colori sulle tele: emblema di strade scorrevoli all’interno di un Universo caotico.
Nei lavori di Alessandro Sansoni, il soggetto fotografico viene ora lasciato in bianco e nero mantenendo le sue caratteristiche originarie, ora manipolato e diversamente elaborato con l’aggiunta del colore, avvicinandosi in questo ma non solo cromaticamente a Sebastian Matta e alla gestualità polemica con cui criticava “l’irrazionalità sostanziale della tecnologia moderna” innalzando la forza del segno pittorico per sottolineare il contrasto tra intenzione manuale e tecnicità stilistica. Sansoni non intende tralasciare la consapevolezza che quel “caos” esista e che anzi rappresenti la minaccia costante di un equilibrio personale quanto più universale, già dichiaratamente presente in alcuni lavori del proprio vissuto artistico.
Con la maturità di oggi, Alessandro sceglie di abbandonare la dritta via dell’armonia raggiunta, per tracciare quasi come una sfida personale una prima sovrapposizione di traiettoria. Il “Buddha satiné” emanazione tangibile di saggezza, così come piace definirlo a Sansoni e presente tra i lavori della mostra, diviene in questo modo l’utile guida intellettoemozionale di questo nuovo percorso incrociato.
L’intervento inaspettato di fattori esterni e sociali, difficilmente arginabili, storicamente ripetibili senza il beneficio di un’analisi che ne arresti la ripetitività, si sovrappongono adesso l’uno all’altro, prima nella mente e poi sulle tele che l’artista realizza, immerso totalmente nell’idea più devastante di “Contemporaneità”. La celebre immagine fotografica scattata alla fine della seconda guerra mondiale, dei soldati americani a Iwo Jima, viene intenzionalmente “clonata” sulla tela dall’artista, nel tentativo di drammatizzare ulteriormente ciò che è dramma esso stesso; portavoce di una contemporaneità irrefrenabile.
Segue il triplice studio fotografico che Sansoni realizza attraverso l’elaborazione di suoi scatti più recenti della Postdamer Platz a Berlino, a trasmettere il senso positivo della rinascita post decadenza, storicamente segnata dalla caduta del muro, riaccendendone la speranza creativa. Seguendo questo percorso e con diverso accento ironico, Alessandro Sansoni sceglie la lattina di Coca Cola, tema sufficientemente sfruttato nella storia dell’arte in tutte le sue accezioni, dalla Pop Art in poi, come il simbolo più schiacciante di contemporaneità, figlia della diversa serialità industriale – già drammatizzata nella “costante iconica” di Capogrossi – ma non per questo troppo distante dal concetto esasperato che l’artista ha della guerra.
Sansoni si è posto un nobile obiettivo: proiettare l’arte al di fuori dei propri ambiti sempre più circoscritti, rivalutandone il ruolo sociale, sollecitando e stimolando una costruttiva riflessione sullo stato della cultura contemporanea nei suoi esiti più significativi e sulle sue implicazioni con il tessuto storico delle città. Con questo spirito, Alessandro sceglie per Roma un rosa fucsia con cui accende l’immagine riportata sulla tela del Tevere che scorre sotto un ponte di Lungotevere; utilizza un verde fosforescente per delineare il cielo che fa da sfondo ai tetti metallici realizzati da Renzo Piano per l’Auditorium della capitale.
Sono tutti luoghi privilegiati quelli che attraggono l’attenzione dell’artista, dove il linguaggio stesso delle architetture dell’antichità come della modernità, tra loro differenti ma complementari, attraverso i singoli frammenti fotografici danno la conferma della felice e opportuna integrazione urbanistica ricercata da Sansoni. Egli attraverso l’intervento del colore non cerca solo l’impatto d’effetto tra l’opera e il suo fruitore, ma intende soprattutto ristabilire un livello di comunicabilità diversa, visiva ed emozionale allo stesso tempo.
Nel seguire la serie di “crossroads” raccontati nei lavori di Alessandro Sansoni, egli ci riconduce al punto da cui si era partiti all’inizio di questo viaggio: un invito ad addentrarsi nel labirinto semantico del suo immaginario pittorico, fino a comprenderne l’auspicabile riconciliazione tra eccezionalità e quotidianità; tra ricerca linguistica e comunicazione; tra arte e vita.